Mandel’štam ha scritto alcune delle poesie più dure nei confronti della “follia sovietica”, sino alla famosa invettiva contro Stalin, una sorta di autocondanna capitale che lo ha portato alla denuncia e all’arresto e a quel calvario di prigione, confino, lager, durato cinque anni fino alla morte, costretto a vivere degli aiuti degli amici insieme alla moglie Nadežda in mezzo ai lupi e al rumore del suo tempo. In tutta la sua produzione intensamente lirica, per Mandel’štam la parola della poesia doveva per forza avere una valenza integrale per l’istintivo rigetto del luogo comune, dell’immagine inerte, del tono ingessato, della frase fossilizzata. Decisiva era per Mandel’štam la musica della parola, ciò che rende impossibile fino in fondo una traduzione dei suoi versi, ma che stimola Paolo Ruffilli a confrontarsi con la sua poesia tentando comunque di renderne in un’altra lingua le profonde suggestioni.
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